Yuichiro Fujimoto, “Old Memories”
(audiocassetta e free download, いき二)
Yuichiro Fujimoto (藤本 雄一郎, 1981) debutta nel 2004 con il disco “Komorebi” per l’etichetta norvegese Smalltown Supersound, seguito da una manciata di album per Audio Dregs a cui succedono anni di apparente silenzio. Ricordo di aver ascoltato per la prima volta l’album “Kinoe” una decina di anni fa e non avevo mai sentito nulla di così semplice e allo stesso modo meraviglioso. Poi il silenzio, un lungo intervallo di inattività come gli spazi fra le timide note del suo pianoforte o chitarra nella sua musica.
Anni dopo ritrovai Yuichiro su Tumblr, dove a volte ancora aggiorna il suo album di fotografie. I suoi sono scatti semplici, brevi istanti, nature morte, riflessi di luce su uno specchio d’acqua, una foglia o un vetro accarezzato dalla pioggia, un ombrello rotto lasciato per strada, poche figure umane indistinguibili da tutto ciò che gli sta attorno, momenti di noia in famiglia, una cucina da mettere a posto, macchie di luce, come quando si cerca di guardare il sole. Yuichiro ha smesso, forse definitivamente, di esprimersi attraverso il suono e si è rivolto alla fotografia, ma le immagini impresse attraverso il suo obiettivo non sono così dissimili dalla musica che per pochi anni ha composto.
Comporre non è la parola giusta, o forse è esattamente quello che intendevo. Yuichiro compone istanti musicali esattamente come un pittore, o un fotografo in questo caso, compone il soggetto che si appresta a ritrarre. Come la composizione di una natura morta, con pochi oggetti disposti con cura, e il tempo che passa durante la lunga contemplazione che definisce l’opera. Il soggetto stesso cambia durante il processo creativo. Le luci si spostano, si spengono, la frutta va a male, il modello vacilla e si annoia, un moto d’impazienza, i giorni che passano e gli stessi occhi del fotografo/musicista non sono più gli stessi, e la medesima immagine di pochi istanti prima rivela ora qualcosa di completamente nuovo.
La musica di Yuichiro è proprio questo. La composizione di elementi che insieme vanno a formare un paesaggio organico, un paesaggio che magari prima non c’era, ma in quei pochi minuti di registrazione afferma una propria esistenza. L’attesa e il tempo che scorre inesorabile, gli elementi parlano per poi chiudersi in un naturale silenzio. Lui osserva, cattura questi istanti e queste parole fatte da elementi naturali che comunicano, che si dicono cose per noi sul momento incomprensibili ma che poi acquisiscono un significato per ognuno diverso.

I suoi non sono semplici field recordings. I luoghi registrati, o meglio, suonati, da Yuichiro, non sono immediatamente riconoscibili. Non sono neppure ascrivibili ad alcuna peculiarità sonoro-culturale giapponese. Poche culture sono riuscite a creare un paesaggio sonoro così riconoscibile agli spettatori e ascoltatori di tutto il mondo. Mi riferisco ad esempio al suono dei treni che passano, centrale sin dai film di Ozu, dei passaggi a livello, del frastuono delle cicale nelle torridi estati giapponesi spesso associato ai colpi delle mazze dei campi da baseball (o meglio il やきゅう, yakyu) delle scuole medie e superiori giapponesi con l’immancabile campana di fine lezioni. Poi il vocio incessante e il rumore bianco delle metropoli, le pubblicità che strillano come neon assordanti, così come assordanti sono i commessi o camerieri dei ristornati e negozi obbligati a darti il benvenuto con un sonoro irasshaimase! (いらっしゃいませ). Forse solo i film italiani del passato possono vantare una simile caratterizzazione e identità sonora, con i campanili nelle piazze, i motorini e i loro clacson, e il rumore delle posate al lavoro durante la desolazione delle città italiane la domenica a pranzo, così come le telecronache delle partite dell’Italia quando riesce a partecipare ai mondiali. Però questi sono paesaggi ormai andati, appartenenti ai film di Don Camillo o al massimo fino agli anni ’80 di Fantozzi. Ora che suono abbiamo? Interessa ancora a qualcuno?
Il rapporto fra la musica giapponese, o dell’estremo oriente, con l’ambiente, è antico. Saranno luoghi comuni e non ho certo le capacità né conoscenze sufficienti per poter approfondire ulteriormente l’argomento, ma è immediatamente apparente già dall’ascolto di strumenti tradizionali come il flauto shakuhachi le cui note sono tutt’uno col suono del fiato e del respiro, o dello schioccare del legno dei tamburi taiko, che musica (nel senso di suoni composti ed emessi dall’uomo consapevolmente) e natura (concetto completamente astratto, ma involontaria nella ricerca di armonia/melodia ma non per questo inconsapevole) non sono mondi separati, al contrario della musica occidentale dove l’uomo domina il suono manipolandolo attraverso complesse strumentazioni e orchestrazioni. Le opere di compositori contemporanei come Toru Takemitsu mantengono un rapporto essenziale con la natura non percepita soltanto come rumore o ostacolo o assenza di note, ma parte integrante di quello che è percepito come musica, e autori occidentali a partire da John Cage ne hanno fatto tesoro e riscoperto il legame indissolubile. Il silenzio stesso, e non sole le pause fra sequenze d’azioni umane, è parte integrante di una musica che va al di là di quello che l’uomo può comporre.
La musica non può essere estranea alla terra da cui nasce, fatta di corpi che si animano e sudano per produrre armonie, ambienti che i riempiono di onde a cui rispondono con echi e risonanze, danze propiziatorie e feste alla fine di un faticoso raccolto. Non esiste silenzio assoluto se non nell’assenza di vita, e ogni istante e ogni suono emesso sono una celebrazione della vita stessa. La musica occidentale “colta” ha nel tempo riscoperto quello che era il folclore della terra, legato alle stagioni e alla sopravvivenza, ma ha continuato a distinguere ciò che è rumore e ciò che può essere considerato come musica.
Il concetto stesso di musica e di ciò che la costituisce si amplia, con l’avvento della musica elettronica che permette una manipolazione assoluta del suono, sia scolpendo, sottraendo e aggiungendo con la sintesi il rumore per farne strumento, che emulando e controllando quindi i suoni ascrivibili alla natura. Da qui è interessante seguire l’evoluzione di quello che poi sono diventati veri e propri generi.
Da una parte ad esempio la musica New Age che ricerca in melodie e suoni piacevoli e rassicuranti, privi di una struttura canzone tradizionale ma espansi, ma anche privi di asperità e dissonanze, un modo per comunicare con la natura ma soprattutto con una certa spiritualità orientaleggiante e meditativa che vede nella natura una fonte di pace e sintonia cosmica. È musica in cui il suono è però secondario, rivolta più ad un effetto meditativo e trasformante dell’ascoltatore, ma che in sostanza dice poco di quella “natura” o “naturalità” che ricerca e a cui si ispira.
Dall’altra il noise, e nello specifico, il japanoise, ovvero la forma più brutale e sfrenata di rumorismo harsh noise nata in Giappone a cavallo degli anni ’80, dove rumori industriali (e non “naturali”), spazzatura, elettronica di consumo, distorsioni, sample e urla disumane si mescolano in quello che è sicuramente la forma più violenta e spietata di manifestazione a-musicale mai prodotta. Il rapporto organico con il suono di questi musicisti giapponesi, o forse la disumanizzante entità delle loro metropoli, i ritmi di lavoro sfiancanti, la rigidità e conformismo culturale da cui evadere sono forse i fattori che hanno reso questa deriva estrema possibile soltanto in Giappone.
All’estremo opposto, ma sempre radicato nella ricerca e nell’improvvisazione radicale, è la corrente Onkyokei (音響系), o “riverbero del suono”, incentrata sul silenzio, rumori pacati e brevissimi, echi di suoni invisibili, eterei, musica destinata a evaporare e lasciare pallidissime ombre, certamente vicina alla lowercase music di Steve Roden ma che vede fra i suoi esponenti, raccolti attorno alla galleria Off Site di Shinjuku a cavallo fra fine anni ’90 e inizio 2000, anche alcuni degli stessi noiser febbrili del japanoise, in particolare Otomo Yoshihide.
In mezzo a tutto ciò c’è anche da ricordare il ruolo della musica ambientale kankyō ongaku giapponese a cavallo fra anni ’80 e ’90, riscoperta ora grazie alla combinazione di oscuri algoritmi di Youtube, la fascinazione vaporwave per tutto ciò che è giapponese anni ’80 come il city pop e idol adolescenti, la calma narcotizzante o meglio iper-produttivizzante delle playlist low-fi radio (che con il low-fi hanno in realtà poco a che fare se pensato in ottica alta fedeltà o indie rock) “per studiare” dove centinaia di migliaia di ascoltatori si fanno cullare allo stesso momento dalle note hip-hip e jazz dolci e romantiche dello scomparso Nujabes, colonne sonore di retrogames, e il successo definitivo di Ryuichi Sakamoto con la consacrazione dell’oscar per la colonna sonora di The Revenant. Kankyo Ongaku è anche una straordinaria compilation uscita per Light in the Attic (dove troverete anche compilation city pop, colonne sonore di Miyazaki e tanto altro appunto), che vede brani di Hiroshi Yoshimura, Joe Hisaishi (sue le colonne sonore indimenticabili dei film di Hayao Miyazaki e Takeshi Kitano), Sakamoto coi suoi Yellow Magic Orchestra, Takashi Kokubo (autore fra l’altro del suono della sirena d’allarme per terremoti commissionato dal provider Docomo, e su questo approfondiremo fra poco) e Haruomi Hosono fra gli altri.
La Kankyo Ongaku segue sicuramente la lezione di Brian Eno, che con i suoi “Music for…” crea suoni per abitare ambienti, sonorizzando spazi, abbandonando il ruolo del compositore come creatore e lasciando, apparentemente, il suono scorrere nello spazio e nel tempo, riempire e svuotare territori e paesaggi, naturali e non (aeroporti, ascensori, fino a spazi digitali come il suo suono di apertura per Windows che ci porta fra nuvole azzurre e un campo verde pacifico quanto irreale…), senza intervenire, come la musica potenzialmente eterna di La Monte Young, padre del minimalismo. Questi musicisti, a volte finanziati dal mecenatismo dell’affluente corporate culture del boom economico pre-bolla del Giappone anni ’80, progettano suoni per architetture, palazzi residenziali, mansion di lusso, piscine, gallerie d’arte e installazioni, fino ad oggetti di consumo, con CD inclusi con l’acquisto di condizionatori Sanyo e orologi Seiko. Non è però sterile muzak per riempire il silenzio e l’ansia esistenziale e spingere al consumo (come la musica pop è invece tacitamente), ma suoni concepiti per creare esperienze, evolversi in relazione al fruitore e agli ambienti e agli oggetti “abitati” (come già la furniture music di Erik Satie, riesumata da John Cage), dove il compositore si fa da parte, lasciando parlare lo spazio e le cose, così come i suoni emessi dalle “macchine” potrebbero continuare all’infinito e farsi aria e tempo, trascendere il qui e ora, fino alle intelligenze artificiali di oggi che potrebbero (e già fanno) comporre musica autogenerata, per il solo piacere di farlo.
I suoni sono ridotti al minimo, eppure ogni suono è necessario, esattamente come e dove deve stare e funzionale al proprio compito. Il suono d’accesso a Windows di Eno ci porta in una piattaforma altamente funzionale, così come l’allarme di Kokubo deve essere assolutamente e immediatamente riconoscibile eppure non creare panico, e l’avvio della console Dreamcast di Sakamoto trasportarti in un mondo virtuale fatto di sogni poligonali. Il sound design (più che composizione) conferisce al musicista precise responsabilità sociali, trasformando la società e l’ambiente con i propri suoni, accompagnando e semplificando l’esperienza del singolo nei confronti degli oggetti e della collettività che quegli oggetti e spazi rappresentano.

Si potrebbe ricollegare questo approccio funzionale alla musica alla spiritualità zen e ad un certo animismo in cui le cose (piante, rocce, gioielli…) hanno un’anima e quindi una propria voce, ma non sarei in grado di approfondire ulteriormente. Sicuramente questa attitudine all’utilizzo del suono rispecchia alcune specificità culturali e identitarie giapponesi. Così come il japanoise, o il krautrock tedesco, il prog italiano, il k o j pop, oppure i suoi antenati melodici giapponesi con l’enka o il trot in Corea, (chiamato anche ppongjjak 뽕짝), questi generi hanno le proprie radici altrove eppure hanno sviluppato una propria unicità e identità, e non sarebbero potute evolversi in altro modo e luogo. C’è da chiedersi anche se ci potrà mai essere (o se già c’è, e penso ci sia, a parte la musica delle intelligenze artificiali) una musica completamente priva di radici e specificità culturali, assolutamente neutra, talmente anonima e superficiale da poter esser prodotta e riprodotta in qualsiasi paese e tempo, e rimanendo identica a sé stessa, una musica definitivamente globale, non nel senso di world music alla Peter Gabriel, ma di musica definitivamente globalizzata e senza identità alcuna.
Torniamo, dopo questo lungo excursus, alla musica di Yuichiro. Fujimoto non registra paesaggi (soundscapes) specificatamente giapponesi. Il suo intento non è etnomusicologico, né bioacustico, neppure aspira alla musica concreta né ad indurre alla meditazione. I suoi ritratti sonori non sono neutri, nel senso che non è solo la natura a parlare, e Yuichiro appare con estrema parsimonia con brevi interventi, qualche nota che comunica attivamente con il mondo circostante, sempre attento a non sopraffare il suono di un uccello o dei passi di un bambino, ma a parlarci e vivere nello stesso momento. Tutto è ridotto all’essenziale, un’economia di elementi essenziali l’uno per l’altro, dove nulla è fuori posto, nulla è di troppo, nulla è perfetto, eppure è esattamente ciò che quel momento doveva/poteva essere. Allo stesso modo in cui le sue fotografie catturano, o meglio, rappresentano, istanti, indissolubilmente legati ai luoghi e quindi alla materia i corpi e le voci di chi e cosa era con lui in quello specifico presente, la sua musica contiene momenti di esistenza, testimonianze di ciò che è stato, e per questo rimarranno nel tempo. Sono istanti eterni, nati in una specificità geografica e temporale, eppure universali. Registrandoli Yuichiro decide di non custodirli soltanto per sé, ma di donarli a chiunque abbia voglia di ascoltare, e di vedere, attraverso quei suoni, luoghi cose animali e corpi a cui a sua volta darà un colore, una temperatura, un profumo, un volto, un nome, facendoli propri.
“Old Memories” è una raccolta di materiale risalente alla giovinezza di Yuichiro, che da qualche anno ha ormai abbandonato la musica. “Song of Hiroe” ci porta ad un pomeriggio passato con sua nonna, Hiroe, cantando canzoni vecchie enka e accompagnandola con qualche fragile nota alla chitarra. Una chitarra da pochi soldi, appena comprata ad un mercatino delle pulci. Yuichiro aveva appena 18 anni.
“Old Yamaha” sono una raccolta di tre canzoni composte ancora adolescente con una vecchia tastiera Yamaha QY-20, sempre di seconda mano, ispirato dalla techno di Aphex Twin degli anni ’90 ma creando qualcosa di assolutamente diverso e unico.
Queste sono registrazioni destinate a rimanere nascoste in una cassetta dimenticata in un qualche scatolone in soffitta per altri 20 anni. Mi chiedevo perché Yuichiro non avesse più pubblicato musica in quasi dieci anni, e per questo ho provato a contattarlo attraverso il suo Tumblr. Ci sono riuscito, e Yuichiro le ha offerte a Ikigai per renderle finalmente accessibili a tutti, e per questo gliene saremo per sempre grati.